giovedì 19 novembre 2015

#Parisattacks: problematiche aperte in Rete dopo il 13 novembre 2015.

Se la televisione aveva dominato la scena del racconto (o forse si poteva chiamare già allora storytelling?) della tragedia delle Torri Gemelle, quattordici anni dopo sono i social network l’arena di discussione e la fonte di informazione principale degli attacchi terroristici rivendicati dall’ISIS a Parigi.
Twitter ha fornito un racconto degli eventi generato dai suoi stessi utenti coinvolti tra gli spari del Bataclàn e dello Stade de France, e veicolato dall’hashtag #Parisattacks, dando inoltre prova delle notevoli potenzialità in ottica citizen journalism della neonata applicazione per la pubblicazione di video in diretta Periscope. Sulla nota piattaforma di microblogging, inoltre, hashtag come #porteouverte e #RechercheParis hanno dato a molte persone per strada nella notte parigina la possibilità di trovare un posto sicuro per rifugiarsi, o hanno permesso a parenti e amici degli spettatori del Bataclàn di avere notizie dei propri cari.
Facebook, invece, si è distinto, dal giorno successivo ai fatti di Parigi, soprattutto per l’implementazione della funzione safety check, già usata per recenti catastrofi naturali, che ha permesso agli utenti di sapere che i loro conoscenti, a Parigi per lavoro, studio o vacanze, stessero bene, e per la bandiera francese proposta come sfondo dell’immagine profilo, riprendendo l’esperimento della bandiera della pace seguito alla storica sentenza della Corte Suprema USA sui matrimoni gay. In entrambi i casi, dietro finalità di condivisione e socializzazione, è inutile negare l’esigenza di una multinazionale di profilare gusti e comportamenti dei suoi utenti ai fini dello sviluppo dei suoi prodotti e di accordi pubblicitari.
Come sempre, però, Facebook e Twitter sono stati anche luogo di discussioni aspre e violente tra gli utenti, ormai comunemente etichettate come hate speech, termine di origine statunitense che indica un genere di parole e discorsi che non hanno altra funzione a parte quella di esprimere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo.
Un discorso di odio online che, mai come in questi casi, non è lontano dai toni usati dai soggetti politici (si pensi ai tweet e alle dichiarazioni del segretario della Lega Nord Matteo Salvini) o dai talk messi in scena dall’infotainment televisivo di Barbara D’Urso, contro la quale si è schierato (ovviamente a mezzo Twitter) persino un parlamentare di centrodestra come Paolo Romani, scatenando un significativo cortocircuito tra dibattito politico, mediatico e social sui temi del terrorismo di matrice islamica.
In generale, sembra, ad una prima impressione, che la narrazione dei fatti di Parigi veicolata dal sistema comunicativo ibrido, in cui un tweet di un utente rimbalza in diretta televisiva, un programma televisivo viene impetuosamente discusso su Facebook (come spesso accade di recente) e la dichiarazione di un ex Ministro della Repubblica si perde tra le tante bandiere francesi veicolate dai social media, abbia certamente permesso, in una fase iniziale, una notevole dose di empatia e di coinvolgimento del pubblico anche meno attento alla politica internazionale.

A distanza di una settimana, però, emozioni e terrore non sono ancora stati sostituiti da comprensione e interpretazione delle delicate vicende in corso, e rimane, nell’arena (sempre meno) virtuale, una situazione di difficile convivenza tra folle polarizzate (interventisti vs pacificisti, estremisti delle frontiere chiuse vs multiculturalisti ad oltranza), le cui differenze sono rafforzate dai filtri dei social network, sempre ripiegati su criteri di omofilia e condivisione di notizie e opinioni di amici virtuali, in cui difficilmente trova spazio l’espressione di punti di vista critici o alternativi, o anche solo più concilianti e moderati, che vengono risucchiati, online come offline, dalla spirale del silenzio che avvolge sempre più la formazione dell’opinione pubblica.

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